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'Io stesso sono un anarchico ma di un tipo diverso'

Mahatma Gandhi

venerdì 29 aprile 2011

Alle radici dell'ideologia

di  Massimo Marucci, CulturaCattolica.it



Scorci di attualità da una lezione del professore francese



"Credo di aver capito il meccanismo fondamentale dell'ideologia". Durante una sua conferenza milanese, è Alain Finkielkraut, un grande pensatore francese, che insegna Filosofia all'École Polytechnique di Parigi, ad "osare" questa affermazione suggestiva; il compito che si propone è arduo, ma a suo dire urgente e appassionante: cercare di cogliere, attraverso il confronto fra utopia e realtà, l'origine da cui scaturisce l'ideologia.

L'ideologia non è morta con la fine della Guerra Fredda, né con la caduta dei grandi regimi totalitari: al contrario, sopravvive, più o meno sottilmente, perché ancora molto viva è la sua scaturigine teorica.

Il professore francese mette in campo alcuni fattori latu sensu filosofici che, a suo modo di vedere, stanno alla radice della tendenza a fare della politica una politica ideologica.

Innanzitutto si richiama a Rousseau, e alla sua dottrina secondo cui il male ha un'origine essenzialmente storico-sociale: "Odio la servitù come fonte della disgrazia umana" affermava il filosofo francese. Esiste un crimine originale che sta all'inizio di tutti i mali, anzi che determina tutti i mali e tutti i crimini particolari. Qui entra in gioco il secondo punto filosofico, che è il principio di ragion sufficiente di Leibniz. Secondo la nota teoria leibniziana, se un evento accade, vuol dire che esistono ragioni adeguate ed esaurienti perché esso accada. Non siamo di fronte ad una tautologia, ma ad un vero e proprio determinismo: tutti gli eventi dell'universo, e dunque anche le azioni umane, sono riconducibili ad una serie di cause necessarie che le hanno determinate. L'esempio di Finkielkraut è il più evidente, ma nello stesso tempo colpisce la lucidità con cui egli legge l'attualità avendo la capacità di descriverla prima di interpretarla, di descriverla nelle sue dinamiche. Si tratta degli USA dopo l'Undici Settembre, un evento che immediatamente ha suscitato sconcerto e stupore in tutto il mondo. Ma presto lo stupore è cessato, e la gente ha iniziato a parlare di quello che era accaduto all'America in termini diversi. Gli stati Uniti - si è iniziato a dire - erano colpevoli della propria stessa potenza. Come dire: la ragione delle cose, che da ogni premessa trae la necessaria conseguenza, ha fatto sì che questa superpotenza, colpevole originariamente di essere appunto tale, abbia avuto la giusta pena per la propria colpa. E chi le ha inflitto questa pena, ha in un certo senso applicato il principio di Ragione, sì è fatto interprete di ciò che "era scritto" nella storia. Ecco l'ideologia all'opera: a partire da un principio teorico, le vittime diventano i colpevoli, e i responsabili diventano vittime. Questo principio deterministico, insieme a quello rousseauiano del crimine originario, determina un modo di rapportarsi a ciò che succede nel mondo, appunto ideologico. Infatti l'umanità viene divisa in due grandi categorie, che tuttavia non trovano alcuna ragion d'essere nella realtà: chi agisce e chi re-agisce. I destini di queste due categorie di uomini sono molto diversi. Chi agisce, infatti, agisce di sua volontà, ed è dunque responsabile di quello che fa.

Si potrebbe dire, sempre con Finkielkraut, che agisce secondo un principio di ragione insufficiente: agisce cioè senza essere determinato, in quello che fa, da una catena di cause che da sole sono in grado di spiegare ed esaurire la sua azione. La sua azione risulta dunque ultimamente irriducibile a qualsiasi spiegazione deterministica; è un'azione libera e, in quanto tale, suscettibile di responsabilità morale.

Molto diversa è la sorte di chi reagisce: questi, infatti, agisce secondo il principio di ragion sufficiente (o principio di Ragione), per cui, qualunque cosa faccia, sarà sempre innocente, in quanto la vera causa delle sue azioni non risiede in lui, ma fuori di lui, in quelle che genericamente possiamo chiamare "circostanze". Di questa categoria si serve la sociologia moderna, che cerca di spiegare i comportamenti umani partendo dalle circostanze che li determinano ad agire.

E qui Finkielkraut non risparmia una nota polemica, e ricorda come spesso, nella sua patria come altrove, si sia dato il caso seguente: di parlare, di fronte alla violenza in termini sociologici, indagando a fondo le cause esterne che possono portare un uomo a compiere atti scellerati; e di professare invece con sdegno una "indignazione morale" di fronte ad un fascista o ad un razzista.

Al di là della correttezza o meno dei rispettivi giudizi, pare evidente al nostro intellettuale un meccanismo all'opera che si sovrappone alla realtà, colorandola ora in un modo ora in un altro a seconda dell'arbitrio di chi tira le redini dell'opinione pubblica.

Attorno a questo percorso teorico, Finkielkraut pone numerosi esempi di attualità, spaziando dalla situazione francese all'orizzonte internazionale. Su questa divisione ideologica fra chi agisce e chi reagisce, fra chi è colpevole e chi giustamente si ribella, fa il caso dell'antisemitismo in Francia: la Francia è per definizione una nazione antisemita; ebbene, proprio in questi tempi si assiste ad una nuova ondata di antisemitismo, che tuttavia non è considerata come attribuibile al dominio dei "colpevoli".

Gli antisemiti fanno parte di coloro che reagiscono; loro, esclusi ed emarginati, vittime delle loro stesse condizioni, e soprattutto vittime di quel crimine originale che li rende assolutamente non responsabili dei loro crimini particolari. Su questo allontanamento della giustizia dalla realtà, su questa ipostatizzazione del crimine al di fuori della storia concreta, Finkielkraut si pronuncia duramente circa il Tribunale Penale Internazionale.

A suo dire, tale istituzione, avendo il compito di giudicare crimini senza prescrizione, si sottrarrebbe al dominio del tempo, spostando l'amministrazione della giustizia ad un livello quasi divino. Ad un diritto universale, sembra dire, preferisce invece una politica reale per l'umanità. E cita il caso della Croazia, un paese che negli ultimi anni stava avendo un'apertura democratica, fino a quando il Tribunale Penale, chiedendo l'estradizione di un nazista di 83 anni, ha fatto sì che si ridestasse il sentimento nazionalista. Finkielkraut, figlio di una famiglia ebraica segnata dal dramma di Auschwitz, parla anche del conflitto fra Israele e Palestina; non compie un'analisi della situazione, né prende esplicitamente posizione per l'una o per l'altra parte.

Mostra solo, ancora una volta, il meccanismo dell'ideologia all'opera. In questo caso, ad esempio, la Memoria, la tanto invocata Memoria, si ritorce contro Israele. Cita un giudizio di una giornalista italiana che accusava Israele di essere di essere stato l'unico paese a non aver fatto il mea culpa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Da qui, secondo la ferrea logica dell'ideologia, deriverebbe la violenza estrema degli Israeliti.

Il professore francese parla anche della possibile guerra contro l'Iraq, e della perplessità di fronte ad essa, di fronte alla debolezza di certi argomenti pacifisti, di fronte alla stranezza della situazione mediorientale. L'Arabia Saudita, ad esempio. E' l'unico paese al mondo nel cui nome compare il nome della famiglia governante; eppure, secondo gli Stati Uniti, si tratta di un paese assolutamente moderato. E non è l'unico punto di incertezza intorno all'America: questa, da sola, vorrebbe ricostruire il Medio Oriente, per di più con i suoi mezzi, investendo una possibile guerra di ragioni morali che invece non devono essere tali. Se delle ragioni ci sono, infatti, queste non sono morali. C'è di mezzo un popolo, ad esempio; e le manifestazioni a favore del popolo iracheno, e dunque contro la guerra, secondo Finkielkraut non tengono conto del fatto che proprio non fare la guerra significherebbe abbandonare a se stesso questo popolo. Ed è proprio su questo tema che il professore fa la sua dichiarazione di pessimismo. Per quanto riguarda la guerra, esso si traduce in un "no alla guerra, ma con la morte nel cuore".

Ma più in generale, uno sguardo pessimistico nei confronti della realtà storica sembrerebbe essere l'unica possibilità nei confronti dell'avanzare dell'ideologia. Eppure, poco prima Finkielkraut aveva risposto in modo diverso ad una domanda che chiedeva se una speranza è ancora possibile, e qual è il luogo della speranza. Aveva ripreso la categoria dell'avvenimento, che è per eccellenza il luogo in cui la realtà sfugge al controllo dell'uomo. Viviamo in un mondo - diceva - dove l'uomo ha il desiderio di dominare la realtà, in un certo senso di produrla lui stesso, per poterla meglio controllare.

Con un implicito accenno alla visione hegeliana della realtà, reale e razionale vengono così a coincidere. Tutto ciò che avviene, e in quanto tale è dato, viene sempre più messo ai margini, per far spazio a ciò che invece è prodotto. La tecnologia, anche nella sua versione biologica, è permeata da questo spirito. Al contrario è proprio nell'avvenimento che va riposta la nostra speranza, in quello che ci è dato; in quello che, indipendentemente da noi, è dato a noi. Hannah Arendt usava come paradigma della gratuità nel darsi della realtà la figura della nascita.

La nascita è il paradigma ontologico dell'evento: "Un bambino è nato per noi"! Una nascita è un miracolo, e il miracolo è ciò che può vincere sull'utopia. E' sempre Finkielkraut che parla, ma la passione di queste parole sembra trapassare il suo "metodo" pessimistico, tante volte professato. Di fatto, il suo lavoro non è solo un lavoro di critica, di critica dell'ideologia e dell'utopia.

Altrimenti sarebbe fine a se stesso. Invece, attraverso questa critica, si percepisce che il suo desiderio è quello di costruire qualcosa, una cultura nuova, che arrivi a quel punto della ragione in cui, se è vero che la realtà ci viene in contro con gratuità, l'ultima parola di fronte alla vicenda umana può essere solo…gratitudine.




 

domenica 24 aprile 2011

AUGURI

Buona Pasqua con l'augurio che l'Isola di Spargi nell'Arcipelago della Maddalena, divenga patrimonio dell'umanità.*


* Aderite al gruppo di Fb: Amici dell'isola di Spargi
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venerdì 22 aprile 2011

La metafisica de L’operaio di Ernst Jünger



di Luca Caddeo 



Il progresso tecnico che ancora alla fine dell’800 sembrava condurre l’uomo ad un mondo più giusto e libero dal dolore, pareva mostrare, all’alba del secolo ventesimo, il suo terribile volto di Giano. Gli sfaceli della guerra e la povertà da essa cagionata producevano quelle ingiustizie che, nell’ottica marxista, e ben presto nazionalista e “fascista”, erano il prodromo, per certi versi contraddittorio, all’avvento della “rivoluzione”, fosse questa intesa come un ribaltamento dei rapporti di proprietà o come uno scardinamento del mondo liberale e borghese in previsione della costruzione di una comunità organica. Si iniziò a leggere la tecnica come il segno, se non la causa, della decadenza morale dell’uomo che preludeva al crepuscolo del mondo occidentale o almeno alla sua inevitabile “Krisis”. E’ assai in generale questa la cornice storica e sociale all’interno della quale l’allora celebre scrittore di guerra e giornalista politico Ernst Jünger pubblica, nel 1932, il saggio filosofico e metapolitico Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt (1).
Nelle pagine che seguono cercherò, da un lato, di evidenziare la portata propriamente metafisica del saggio esaminando la metafisica delle forme che ne costituisce l’impianto; dall’altra, avrò modo di rilevare come Ernst Jünger ne L’operaio non abbia l’intenzione di criticare la classe borghese per rinsaldarne, attraverso un artificio ideale, il potere; al contrario, secondo i miei studi, egli mette sotto accusa il borghese e il suo potere volendo, almeno teoricamente, contribuire alla costruzione di un modello metapolitico che, già a partire dai presupposti, si distingua nettamente sia dal liberalcapitalismo che dal collettivismo.
1. Forma e Tipo
Sfogliando L’operaio si ha la sensazione che temi di varia natura siano talmente e finemente interconnessi che appaia assai arduo procedere ad una de-composizione funzionale alla comprensione dei presupposti. Ad una lettura più attenta si “vede” invece perfettamente ciò che, nell’intento dell’acuto “sismografo”, si cela sotto la multiforme matassa. E’ utile a questo punto procedere alla illustrazione di quelli che mi sono sembrati i fondamenti metafisici del saggio del ’32.
Secondo Jünger esisterebbe un “solco” ineffabile definito di sovente eterno e immobile, di cui ogni forma (Gestalt) sarebbe il modo temporale. La Forma è una irradiazione (Strahlung) dell’Indistinto eterno ed immoto, è il modo tramite cui l’essenza numinosa della forma si fa tempo (2); la forma è un tutto che non si riduce alla somma delle sue parti (3). Ciò fa pensare che l’essenza della Gestalt non nasca e non muoia con gli elementi che ne garantiscono l’epifania, anche se il rapporto tra la forma e il suo evento è pressoché necessario (4). L’uomo non ha la possibilità di rappresentare la forma nella sua essenza, non la può cioè porre davanti a sé come un oggetto materiale o spirituale per poi misurarla razionalmente (5). Essa, in sé, è come l’Uno di Plotino (6). Ma l’uomo può “avvicinarsi” (7) alla forma vivendola, cioè incarnandola. Vivere la forma significa dis-porsi alla sovraindividualità che è la modalità grazie a cui la forma si appresta a dominare globalmente. L’uomo travalica la propria individualità facendo spazio al dipanarsi della forma, tras-formandosi in Tipo. La Forma si manifesta infatti nel tipo. Essa è il sigillo, dice Jünger, rispetto al tipo che è l’impronta (8).
Se la forma nelle sue vestigia mortali è una declinazione dell’eternità, il tipo deve, a mio avviso, essere considerato come la guisa temporale della forma. Esso infatti, in un certo senso, attualizza il Destino della Forma. Tale Destino, come suggerito dal titolo de L’operaio, è il Dominio della Forma. Un Dominio che, lo si diceva, non è parziale, che cioè non si espande in un solo piano della realtà, ma a livello del pensare, del sentire e del volere oltre che nello spazio tramite la tecnica e la distruzione che essa comporta. Nello scritto del 1963 Typus, Name, Gestalt si legge che “Tipo” è più di “individuo” nella stessa misura in cui è meno di “forma” (9).
La forma è più vicina all’Indistinto; il tipo, irradiazione della Forma, valicata l’individualità, spalanca le porte all’impersonalità. Questo discorso appare fin qui assai astratto. Per comprendere come effettivamente l’uomo, facendosi Tipo, possa rispecchiare totalmente la forma, è necessario riflettere sul linguaggio della manifestazione della forma. L’uomo infatti si fa tipo (forma nel tempo) praticando, in certo qual modo essendo, il linguaggio della forma. Divenendo tipo, e cioè qualcosa che supera gli esclusivi interessi della propria isolata individualità, si pro-pone al servizio dell’espansione totale della forma. Ora, a parere di Jünger, il linguaggio che la forma, tramite l’uomo, parla nell’epoca della “riproducibilità tecnica” (10) è naturalmente proprio quello della tecnica. Nel periodo de L’operaio la tecnica è un ingranaggio di questo sistema metafisico. Solamente tramite la tecnica infatti la forma può dominare in tutto il mondo. La tecnica è, in altri termini, il modo più efficace tramite cui la Forma può dominare totalmente.
2. L’elementare
Prima di procedere all’analisi del nesso che fonde inestricabilmente, nel pensiero di Jünger, la tecnica alla forma, è bene riflettere su un altro tema che è parimenti inserito nell’impianto metafisico di cui si discute. Mi riferisco alla nozione di “elementare” che, almeno in parte, costituisce uno degli argomenti più “attuali” del pensiero di Jünger (11). Ne L’operaio l’elementare è, da un certo punto di vista, una forza imperitura, sempre uguale a se stessa, ma imprevedibile, poco misurabile, refrattaria al calcolo della ragione strumentale, malamente oggettivizzabile; è dunque un’energia primordiale che non si riduce né all’uomo né alle sue leggi, morali o scientifiche che siano. L’elementare agisce sia come irrefrenabile forza naturale (inumana potenza dei quattro elementi naturali), sia nell’uomo come moto profondo dell’anima impossibile da ponderare, razionalizzare, cattivizzare. Secondo Jünger l’energia del cosmo è sempre uguale a se stessa. Risulta allora perfettamente inutile, anzi assai pericoloso, relegare nell’irrazionale le energie elementari che, in un modo o nell’altro, necessariamente troveranno una valvola di sfogo. Più vengono contratte, più aumenta la loro carica esplosiva, dirompente, agli occhi dell’uomo, terribile. Il borghese porterebbe avanti proprio questo tentativo: piegherebbe l’elementare all’assurdo o, al massimo, all’eccezione che conferma la regola della razionalizzabilità del tutto. A parere del borghese tutto ciò che non può essere ricondotto alla ragione strumentale e alla morale utilitaria deve essere per forza assurdo, dunque irrazionale; l’elementare è così, nell’ottica dell’uomo moderno, destinato ad essere s-piegato, calcolato. Il motivo di questa operazione matematica (12) è per Jünger essenzialmente uno: la paura. L’uomo moderno ha infatti come fine la sicurezza che, insieme alla comodità e all’aponia, vede come il presupposto della sua felicità. L’elementare introduce l’uomo nello spazio del pericolo e dunque lo apre all’esperienza inspiegabile, ma endemica all’umano, del Dolore (13). Crea così le premesse per lo sconvolgimento dell’ordine morale e sociale mettendo a repentaglio la sicurezza che, come si è detto, sarebbe il valore più caro all’uomo borghese. La contraddizione, la sofferenza, la violenza, ma anche la temerarietà, l’entusiamo eroico, fanno parte del sottobosco a cui l’elementare, secondo Jünger, dischiude l’animo umano. Il borghese crede che grazie al progresso, anche tecnico, la società umana possa un giorno pervenire alla costruzione di un paradiso terrestre in cui l’uomo universale, dotato di diritti inalienabili, possa essere rispettato in quanto tale; un paradiso terrestre da dove possa essere bandito il pericolo, il dolore. Jünger contesta l’equazione razionalità-borghese=razionalità. Quella borghese è infatti, ai suoi occhi, una forma di razionalità che strumentalizza ogni fenomeno alla sicurezza e alla comodità dell’uomo. Una forma di ragione che, dopo averlo oggettivizzato, fa di ogni ente un mezzo per raggiungere una forma di felicità terrena che risulterebbe riduttiva, poco appropriata alla grandezza destinale che l’uomo in passato sarebbe stato in grado di incarnare. Nel sistema jüngeriano l’elementare riveste quasi la funzione che in una macchina ha il carburante. E’ infatti l’energia del sistema, è una forza tellurica e immortale che agisce in sintonia con la Forma facendola muovere nello spazio, cioè consentendole di essere nel tempo. Ritornando allo schema generale: così come il tipo permette alla forma di esistere nello spazio, l’elementare permette alla forma di muoversi in esso e dunque, in virtù del legame che tradizionalmente stringe lo spazio col tempo, di essere tempo, cioè fenomeno, evento, Destino. L’Operaio sarebbe capace di scorgere l’elementare nella sua “realtà” senza giudicarlo e “castrarlo”. Non lo relega all’assurdo, ma cerca di amplificarne le potenzialità in vista del Dominio della Forma. Il modo più appropriato che questo eone della Forma ha per liberare la potenza di cui la Forma abbisogna è la tecnica. La tecnica, come è stato accennato e come verrà ribadito, non solo è il tramite che trasforma l’uomo in tipo, ma permette all’elementare di manifestarsi in tutto il suo vigore. La tecnica è dunque rigorosamente innestata nella metafisica elaborata da Jünger, essa appare, ne L’Operaio, come un suo meccanismo imprescindibile (14).
3. La tecnica
La tecnica è “la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo” (15). L’Operaio è così quella Forma che mobilita il mondo tramite la tecnica. Heidegger commenta che allora la tecnica coincide con la mobilitazione -totale- del mondo attuata dalla forma dell’Operaio (16). Alain de Benoist, rifacendosi al saggio del 1930 intitolato Die Totale Mobilmachung, fa presente come ”mobilitare”, nel gergo di Jünger, non significhi solo mettere in movimento, ma vorrebbe indicare anche “essere pronto, rendere pronto”, Alain De Benoist aggiunge, “alla guerra” (17). Mobilitare può significare essenzialmente rendere qualcosa disponibile per qualcos’altro: la mobilitazione del mondo appresta il mondo alla conquista totale della Forma del Lavoro. La mobiltazione va da un lato di pari passo con la distruzione e si realizza nello spazio con la tecnica bellica (18); da un altro lato, già nella sua opera di demolizione, prepara il terreno per la parusia di una nuova Figura e innesca il meccanismo necessario affinché il nuovo Dominio della Forma si realizzi. Come si diceva, il tipo umano è altro dall’individuo. Ora, l’uomo si fa tipo tramite la tecnica, la quale incide sull’essenza dell’uomo grazie alla messa in moto di radicali processi spersonalizzanti che aprono l’individuo alla uni-formità e dunque alla sovra-individualità (19).
Perché lo strumento tecnico possa essere ad-operato dall’uomo, è necessario che questi faccia propria precisamente la razionalità strumentale. Se infatti l’uomo adotta la tecnica come strumento, non ha bisogno di mettere in gioco tutte quelle qualità che lo distinguono dagli altri uomini. Secondo una tradizione di pensiero che si impone già prima di Jünger (Sorel, Spengler, Ortega, Guénon) e che, dopo L’operaio, prosegue, seppur all’interno di concezioni filosofiche assai differenti, tramiteHeidegger, Adorno, Arendt e molti altri, il mezzo tecnico (e la conoscenza come dominio) richiede esclusivamente la capacità meccanica e la razionalità sufficiente a farlo funzionare. Il funzionamento dello strumento sembra il fine del processo tecnico. L’uomo stesso appare come un ingranaggio finalizzato al funzionamento del mezzo che, alla stregua di un circolo vizioso, ha come fine la mera funzionalità. Capiamo così come, all’improvviso, l’uomo col suo retaggio di esperienze personali, qualità irripetibili, particolarità, ma anche “razza” (20), differenza etnica, conti poco. E’ invece importante l’esercizio della ragione che, prendendo in prestito la terminologia diHeidegger, definiamo “rappresentativa”. Il Tipo ergendosi a fondamento, a misura del mondo, pone il mondo medesimo davanti a sé come un oggetto. Il mondo è in quanto può essere misurato, forzato al metro umano. Il mondo è, ha valore (è valore, “immagine”) in quanto è strumentale al dominio del Tipo. Conoscere significa dunque misurare, cioè matematicizzare, pre-vedere, mobilitare, indirizzare al dominio (21). Il metro di valutazione del mondo è l’oggettivazione dello stesso ai fini della sua utilizzazione e la conoscenza in quanto tale, laddove si fa tecnica, è dominio. Questo processo è talmente radicale che, a un certo momento, pare che la tecnica come strumento, da mezzo si tramuti in fine e che, dunque, il fine del mobilitare sia strumentalizzare e utilizzare il mondo in vista del dominio. Il fine del mobilitare sembra il mobilitare (22). Il mezzo dell’uomo piega a sé l’uomo.
L’uomo che inizialmente crede di perseguire tramite la tecnica (strumento da lui inteso in senso neutrale) la felicità (la tecnica si propaga facilmente e velocemente e ingenera l’illusione che tramite essa si possa superare il dolore), poi diventa parte del dispositivo che accende.
La spersonalizzazione che la tecnica introdurrebbe prelude al totale oltrepassamento del modo che sino a quel momento, secondo Jünger, si aveva di interpretare la libertà intesa come “misura il cui metro campione venga fissato dall’esistenza individuale del singolo” (23). L’uomo è parte di un processo dove perdono di importanza le qualità e la vita del singolo, dove, come si diceva, risulta fondamentale rendere il mondo funzionante per lavorarlo in vista della produzione, cioè della mobilitazione. Il lavoro, mezzo che la forma utilizza per piegare a sé il mondo, si propaga in ogni settore della vita (24). Si riduce lo spazio che divide i sessi e quello che divide il lavoro in senso proprio dall’ozio; anche lo sport diventa lavoro; ogni cosa tende ad assumere una forma tipica e incarna lo stesso severo, freddo, ascetico stile. Farsi tipo tramite la tecnica significa dunque attualizzare tutta una serie di proprietà che rendono l’uomo adeguato al dominio della forma. Il dominio della forma nel tempo attuale si appaleserebbe così tramite segni inequivocabili che sono una conseguenza diretta dell’uso della tecnica e della mentalità che tale uso esige. Si fa strada una “rigidita’ da maschera” nel volto rasato del soldato, nella sua espressione glaciale e precisa, che non tradisce una differenza psicologica né alcun umano sentimento, ma che mostra una volontà oggettiva, impersonale, automatica, meccanica. L’uniforme fa la sua comparsa in ogni ambito della vita, gli operai assomigliano così ai soldati e i soldati sono operai. La cifra acquista la sua imprescindibile importanza in ogni settore dell’organizzazione statale, si fa strada l’anonimato, la ripetizione (che sostituisce la borghese irripetibilità, eccezionalità), garantisce la sostituibilità di un operaio con un altro. La quantità prevale sulla qualità.
Fin qui pare di leggere una critica alla tecnica e alla ragione che potremmo trovare in molti altri autori in quel tempo (25). Ma Jünger sembra essere originale proprio in quanto, dopo aver individuato le trasformazioni che la tecnica produce sull’uomo, non cede alla tentazione di condannare i mutamenti epocali di cui si è detto. Che l’uomo pensi di poter restare indenne da questi processi totali è infatti, a suo avviso, un’illusione. Egli, che si voglia o no, ne è mutato profondamente. Questa tras-figurazione distrugge negativamente l’individuo borghese; l’Operaio invece, consapevole della necessità dei processi in atto, sacrifica eroicamente i propri desideri contingenti e, nel Lavoro, considerato alla stregua di una missione rivoluzionaria, perviene alla coscienza di partecipare al Destino della Forma assurgendo a vessillo, “geroglifico” del suo totale Dominio. L’essenza della tecnica dunque, come dirà Heidegger, non sarebbe nulla di tecnico ma di nichilistico (26). Essa demolisce ogni vincolo e ogni consuetudinaria misura in quanto costringe ogni ente al suo utilizzo. Le cose perderebbero così il valore armonico, tradizionale, sacrale, cultuale che avevano e diventerebbero oggetti da dominare e da utilizzare facilmente e velocemente. Il fatto che il mobilitare appaia come un mezzo finalizzato al medesimo e cieco mobilitare, è appunto una apparenza che s-vela l’alto livello a cui la tecnica approda nella sua opera di conquista totale. In verità, il mobilitare finalizzato al mobilitare è, nel pensiero che si analizza, esattamente l’”astuto” modo che la Forma attualmente adotta per raggiungere il proprio Dominio. Il protagonista del mobilitare, il suo fine, non è infatti, contrariamente alle apparenze, in ultima istanza, il mobilitare, ma la vittoria totale della nuova Forma. Per questo Jünger distingue chiaramente tra fase dinamico-esplosiva (“paesaggio da officina”) e Dominio della Forma dell’Operaio. La prima è necessaria al secondo, ma il secondo conclude, nel suo compiersi, la fase “anarchica” in cui il mobilitare si esprime in modo tanto potente da ingenerare la credenza che il suo fine sia solo e soltanto la propria cieca, distruttiva e totale manifestazione (27). In questo processo totale, antikantianamente (28), l’uomo scoprirebbe la sua dignità, o, facendo nostro un gergo appropriato allo spirito del tempo in cui Jünger scrive, il suo “onore”, proprio nel trasformarsi in mezzo della manifestazione della forma. La tecnica è così esaltata precisamente perché tras-forma l’uomo da fine isolato a mezzo organico. L’Operaio risulta, nello spirito e nel corpo, glorificato, per così dire, alchemicamente risorto nella Forma.
4. Metapolitica
Questa analisi ci permette di planare dall’orizzonte metafisico a quello metapolitico. Jünger non condivide il presupposto che starebbe alla base del modello economico proposto dalla società liberal-capitalista, secondo cui la felicità e il benessere di una nazione si ottiene tramite la soddisfazione economica degli individui (atomi) che compongono la stessa società (29).
L’idea per la quale soddisfare i propri esclusivi interessi conduca alla felicità della nazione, è fermamente rifiutata daJünger. Egli ritiene che l’interesse privato debba essere garantito nell’alveo degli interessi sovraindividuali dell’organismo comunitario. Fondare una ideologia che a partire dalla metafisica, tramite l’interpretazione altrettanto metafisica della tecnica, attacchi nei fondamenti l’individuo e la sua idea di libertà, significa chiaramente avere come bersaglio il liberalismo che sull’individuo e sulla tutela dei suoi diritti basa la propria dottrina. I rivoluzionari conservatori si sentivano “vitalisti” proprio nel senso che aderivano nichilisticamente alle contraddizioni della realtà, specialmente laddove queste conducevano alla demolizione dell’apparato politico ed ideologico delle classi dominanti (30). Essi ambivano ad una distruzione da cui potesse originarsi un nuovo gerarchico Ordine e una nuova forma di partecipazione politica. La stessa nozione di forma come qualcosa che non si riduce alla somma delle sue parti, trova riscontro in una comunità politica che non esaurisce la sua essenza nell’addizione dei singoli che la costituiscono. La comunità organica, come la forma, è altro dalle sue parti, è “un altro che si aggiunge”, un di più a cui non si arriva tramite la mera somma di vari elementi. Così l’agire, il pensare e il sentire degli individui non sarebbero in questo contesto finalizzati al possesso della felicità personale, ma al “bene”, alla potenza della comunità che trascende la somma.
Al tempo de L’Operaio la distruzione bellica, grazie alla tecnologia, assunse un livello mai raggiunto fino a quel momento, le lotte sociali si fecero, a causa della misera condizione della classe operaia, ma anche in virtù della diffusione della ideologia marxista, dell’avanzata dei partiti socialisti e dei sindacati, proporzionali all’industrializzazione e alla mobilitazione dei materiali (umani e non) in vista del dominio delle nazioni più sviluppate. Nel dopoguerra, specialmente a causa dell’inflazione e della fortissima svalutazione della moneta, buona parte della classe media perse ogni sua sicurezza e si produssero licenziamenti a catena nelle fabbriche; vari movimenti di destra e di sinistra e altri che si collocavano esplicitamente al di là di questi due cartelli ideali, ottennero così il favore della popolazione stremata dalla crisi economica. Se a ciò si aggiunge la polemica nazionalista contro i firmatari della pesante e probabilmente iniqua pace di Versailles, si capisce come il clima politico e sociale fosse confacente all’avanzata di partiti “radicali” che vedevano nella classe liberale al potere la responsabile dello sfacelo economico e politico della Germania. In un orizzonte in cui il “nuovo nazionalismo”, a cui Jünger aderisce già a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, otteneva sempre più consensi, la metafisica delle Forme avrebbe potuto dunque acquistare un significato morale-politico: il superamento del concetto di individuo, negli intenti di Jünger, avrebbe potuto condurre alla creazione di un “Uomo nuovo” che fosse pronto a donare la propria vita e ad immolare i propri desideri per la potenza dello stato organico, per il risanamento totale “patria umiliata”. Nel pantano ideologico della Repubblica di Weimar questa metafisica politica poteva dunque servire, agli occhi del pensatore, a costruire un’etica che ponesse l’uomo in grado di salvarsi, anche a costo di profondi sacrifici personali, dalla grave crisi in cui versava buona parte delle nazioni europee in quel tempo. Il modernismo reazionario, di cui Jünger è “l’idealtipo” (31), ha un preciso fine politico che è chiaro al pensatore tedesco ben prima della stesura de L’operaio: “Chi potrebbe contestare che laZivilisation è più intimamente legata al progresso della Kultur, che nelle grandi città essa è in grado di parlare la sua lingua naturale e sa utilizzare mezzi e concetti nei cui confronti la Kulturè indifferente o addirittura ostile? La Kultur non si lascia sfruttare a scopi propagandistici, e un atteggiamento che cerchi di piegarla in questo senso non può che esserle estraneo (…)” (32). Jünger crede che il “cupo ardore” che spinse migliaia di giovani ad andare in guerra gridando “per la Germania” offerto ad una nazione “inesplicabile e invisibile”, per quanto fosse bastato a far “tremare i popoli fino all’ultima fibra”, non potesse essere sufficiente per sconfiggere nazioni come quella statunitense che si erano rese disponibili alla mobilitazione totale di tutte le loro energie. Da qui la domanda retorica e assai significativa: “E se soltanto (il cupo ardore di cui si è detto) avesse avuto fin dal primo momento una direzione, una coscienza, una forma?” (33). Il fine politico de L’operaio può allora essere così inteso: creare le premesse metafisiche, dunque “kulturali”, ideali affinché l’ entusiasmo eroico potesse essere veramente efficace, cioè vincente. Jünger si è reso conto non solo del potere ineguagliabile degli strumenti tecnici applicati alla guerra, ma anche della necessità di trasformare la mentalità della nazione nella direzione della mobilitazione totale. Tale mobilitazione implica la fusione della vita col lavoro. Egli cioè pensa che solo se tutto diventa lavoro, tutto viene mobilitato alla potenza e dunque alla vittoria della Germania. Perché ciò accada è necessario che ogni cosa venga piegata allo strumento tecnico. La società diventa “lavoro” se prima è diventata macchina, tecnica. La Kultur tradizionalmente intesa non basta a questo che è chiaramente inteso come uno scopo epocale. C’è bisogno di una Zivilisation che non contraddica la Kultur ma che ne garantisca la vittoria reale. L’operaio ha l’obbiettivo eminentemente politico di sintetizzare laKultur con la Zivilisation, in qualche modo di rendere culturale e politica la civilizzazione e di civilizzare, “modernizzare” la Kultur (34). Jünger contesta in maniera netta l’individualismo negli articoli scritti tra il 1918 e il 193335e, se si nota che L’operaio è del 1932, lo scritto può essere inteso in senso meramente apolitico molto difficilmente. Gli Operai, nel libro del ’32, sono uomini d’acciaio, incarnazione di un’etica oggettiva -realista-, che ha come fine il dominio della Forma del lavoro, e dunque il lavoro totale in ogni settore della produzione e dell’esistenza. L’individuo borghese che, in questa parabola di pensiero, ha come obbiettivo la comodità e la sicurezza, non sarebbe adatto a rappresentare senza rimpianti e con assoluto rigore un’etica che preveda la rinuncia alle proprie contingenti aspirazioni, alla propria esclusiva e “materiale” felicità. D’altra parte, non sarebbe adatto ad incarnare una simile etica neppure il “proletario” che si sente umiliato e combatte per migliorare le condizioni della sua classe e per ribaltare i rapporti di proprietà. Questi infatti lotta per gli interessi di una parte della nazione e ha un fine, che, dal punto di vista jüngeriano, resta sociale ed economico. L’Operaio invece, come si diceva, non bada al miglioramento della propria condizione economica, non ambisce ad impossessarsi dei mezzi di produzione né crede agli ideali di uguaglianza nei quali, seguendo la tradizione marxiana, il proletario dovrebbe credere. L’Operaio jüngeriano è al servizio della Forma e del suo Dominio; a questo servizio sacrifica ogni sua aspirazione, personale o di classe.
Secondo Jünger, si deve lavorare in primo luogo sullo spirito umano per poter ambire almeno ad una parziale rinascita. Il superamento dell’individualità è da Jünger perseguito tramite gli effetti distruttivi della tecnica che, in altri pensatori, sia di destra che di sinistra, sono abborriti in ogni senso. Jünger, nel periodo de L’operaio, ritiene puerili e dannose le tesi di chi pensa che la tecnica sia di per sé uno strumento del Male, qualcosa rispetto a cui l’uomo si sarebbe posto come un inesperto “apprendista stregone” che non è più in grado di controllare le dinamiche innescate dai suoi esperimenti (36) e, allo stesso modo, non ritiene che l’uomo possa divenire buono, giusto e dunque felice. In ogni quadro epocale domina un tipo di Forma che impregna tutto di sé; ogni cosa in un dato ciclo ha lo stile della forma che domina. Il ciclo sorge in quel periodo definito Interregno (37). L’Interregno è nietzscheanamente quel torno temporale in cui i vecchi valori non sono ancora morti e quelli nuovi che scalpitano non hanno ancora conquistato lo spazio necessario al Dominio. Accade così che alla fine di un ciclo le vecchie forme e i valori fino a quel momento dominanti si svuotino pian piano dal loro interno. Che i valori si s-vuotino significa che perdono la loro essenza di valori; il valore è ciò intorno a cui e grazie a cui l’uomo costruisce il suo senso. Alla fine di un ciclo i valori sono ancora formalmente intatti, il loro involucro è integro, splendente; ma perdono di sostanza: non sono più in grado di orientare la vita dell’uomo, è come se il loro corpo fosse ancora monoliticamente visibile a tutti, ma stesse perdendo il proprio vigore, il proprio potere di movimentare l’uomo e con esso il mondo. E’ così che in questo vuoto assiologico ed ontologico si insinuano nuove forze che aprono lo spazio al dominio inarrestabile di nuove forme. In siffatta dinamica di s-vuotamento delle forme che coincide con un nuovo riempimento, opera la tecnica. La tecnica si insinua in ogni dove, nello spazio e nello spirito, inizialmente come uno strumento puro, assolutamente neutro, grazie a cui l’uomo può vivere più comodamente; attraverso cui ha sempre più l’illusione di esorcizzare, depotenziare il dolore e tramite cui, giorno dopo giorno, trasforma la propria vita. Più l’uomo si innamora del suo strumento, più viene risucchiato nei suoi ingranaggi oggettivizzanti di cui sopra si è detto. La tecnica secondo Ernst Jünger risulta pericolosa proprio là dove si ignora il suo potere necessariamente distruttivo. Risulta pericolosa se la si valuta superficialmente come uno strumento neutrale che l’uomo può con la sua ragione utilitaria piegare ai suoi interessi e alla sua oggettiva felicità restandone essenzialmente immune. Ma risulta pericolosa anche là dove si tenti di negarla rifugiandosi in anacronistici sentimenti romantici. In altri termini, agli occhi dello Jünger del 1932, la tecnica è positiva solo se si è consapevoli del fatidico ruolo metafisico che riveste, se si accetta di intraprendere attraverso il suo utilizzo un percorso e-sistenziale che conduca al superamento dell’io, e se, quasi come si trattasse di una catarsi ontologica, attraverso questo superamento ci si renda poveri contenitori della Forma e del suo fatale Dominio.
Note
Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt appare nell’ottobre del 1932 presso Hanseatische Verlagsanstalt (Hamburg). Nello stesso anno si hanno tre nuove edizioni del saggio. Dopo la guerra, Heidegger convince Jünger a ripubblicare il saggio che infatti compare nel sesto volume delle sue opere uscite presso Klett-Cotta a Stoccarda. L’opera è tradotta in italiano solo nel 1984 da Quirino Principe (L’operaio, trad. it., Longanesi, Milano 1984.) dopo che, agli inizi degli anni ’60, Julius Evola la fece conoscere nel riassunto analitico intitolato L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Armando, Roma 1961. Delio Cantimori preferì tradurre la parola Der Arbeiter con “milite del lavoro” per sottolineare il carattere guerriero della nuova figura (Cfr., Delio Cantimori, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, in Delio Cantimori, Tre saggi su Ernst Jünger, Moller van den Brück, Schmitt, Settimo Sigillo, Roma 1985, pp. 17-43.).
2 Qualora le forme, nel loro aspetto fenomenico, non fossero soggette all’annientamento, non si potrebbe agevolmente spiegare la differenza fra un ciclo caratterizzato dal dominio di alcune forme e un altro contraddistinto da forme diverse. Ci fossero sempre le stesse forme cosa muterebbe all’alba di un nuovo ciclo? La valorizzazione di questa dottrina tradizionale giustifica insieme ad altre importanti somiglianze un parallelo fra la metafisica di Jünger e quella a cui si richiamano EvolaGuénon ed in parte Eliade. In particolare, risulta interessante un confronto fra i segni che secondo questi autori caratterizzano il Kali Yuga (L’età Oscura, l’ultima età prima della fine di questo ciclo cosmico) e i segni che, ne L’operaio e in altre opere di Jünger, contraddistinguono l’“Interregno” in cui sorge ed agisce la Forma dell’Operaio. In questo senso, è assolutamente importante anche un paragone con Spengler per il quale si rimanda a: Domenico Conte, Jünger, Spengler e la storia, in A.A. V.V., in Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, a cura di Luisa Bonesio, Herrenhaus, 2002, pp. 153-198; Luciano Arcella, Ernst Jünger, Oltre la storia, in Due volte la cometa, Atti del convegno Roma 28 ottobre 1995, Settimo Sigillo, Roma 1998. Antonio Gnoli e Franco Volpi, I prossimi titani, Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pp. 103, 104. Si veda anche Julius Evola, Spengler e il Tramonto dell’Occidente, Fondazione Julius Evola, Roma 1981. Sulla interpretazione jüngeriana del pensiero di Spengler si legga soprattutto: Ernst Jünger, trad. it., Al muro del tempo, Adelphi, Milano 2000.
3 “Nella forma è racchiuso il tutto che comprende più che non la somma delle proprie parti”. Ernst Jünger, trad. it., L’Operaio, Dominio e Forma, Guanda, Parma 2004, p. 32. “Una parte è certamente così lontana dall’essere una forma così come una forma è lontana dall’essere una somma di parti”. Ibidem.
4 Jünger definisce la storia dell’evoluzione come “il commento dinamico” della forma. Cfr., Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 75. La forma dunque “non esclude l’evoluzione”, la “include come proiezione sul piano della realtà”. Ivi, p. 125. Ciò implica l’avversione non solo alla dottrina del progresso (“ogni progresso implica un regresso”), ma il rifiuto netto di ogni prospettiva storicistica: “La storia non produce forme, ma si modifica in virtù della forma”, ivi. p. 75. Evola commenta: “Le figure non sono storicamente condizionate; invece sono esse a condizionare la storia, la quale è la scena del loro manifestarsi, del loro succedersi, del loro incontrarsi e lottare (…). E’ l’apparire di una nuova figura a dare ad ogni civiltà la sua impronta. Le figure non divengono, non si evolvono, non sono i prodotti di processi empirici, di rapporti orizzontali di causa e di effetto”. Julius Evola, L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 32. Si potrebbe allora sostenere con Eliade che la “valorizzazione” dell’esistenza umana non è “quella che cercano di dare certe correnti filosofiche posthegeliane, soprattutto il marxismo, lo storicismo e l’esistenzialismo, in seguito alla scoperta dell’ “uomo storico”, dell’uomo che si fa da se stesso in seno alla storia”. Mircea EliadeIl mito dell’eterno ritorno, Archetipi e ripetizioni, Borla, Roma 1999, p. 8. Questa impostazione è molto simile a quella jüngeriana, infatti l’Operaio comeGestalt non può essere considerato un prodotto delle dinamiche storico-economiche. E’ la Forma a fare la storia, non viceversa.
5 Usando il linguaggio heideggeriano si può sostenere che la forma non può essere piegata alla scienza intesa come “ricerca”: “La scienza diviene ricerca quando si ripone l’essere dell’ente” nell’ “oggettività”. Cfr., Martin HeideggerL’epoca dell’immagine del mondo, in id.Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 83. La Forma non può essere oggettivizzata, non se ne può fornire una storia dettagliata né, tantomeno, se ne può calcolare in anticipo e con esattezza il corso futuro.
6 Plotino distingue l’essere che è costituito da forme sensibili e intelligibili dall’Uno che può essere considerato amorfo: “L’Uno non è “qualcosa”, ma è anteriore a qualsiasi cosa; e nemmeno non è essere, poiché l’essere possiede (…) una forma, la forma dell’essere. Ma l’Uno è privo di forma, privo anche della forma intelligibile”. Plotino, Enneade VI, in Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992, p. 1343. L’Uno “privo di forma” non può essere conosciuto “né per mezzo della scienza né per mezzo del pensiero”. Chi estaticamente ha “visto” o meglio è “stato” (è) l’Uno “non immagina una dualità, ma già diventato altro da quello che era e ormai non più se stesso, appartiene a Lui ed è uno con Lui”. L’Uno non può essere oggettivizzato. L’oggettivazione si fonda infatti sulla distanza e sulla differenza tra il soggetto che oggettiviza e l’ente oggettivizzato. Qualora ci fosse la distanza tra chi contempla l’Uno e l’Uno, quest’ultimo non si potrebbe cogliere come tale ma come “un altro”. Contemplare l’Uno significa farsi riempire dall’Uno, essere Uno. Stabilito ciò, si capisce come l’esperienza dell’Uno non possa essere adeguatamente raccontata. Manca infatti l’oggetto da ricordare. Ne L’operaiola tecnica è il modo attraverso cui l’uomo, superando la propria differenza, si avvicina a rappresentare la Forma che lo trascende.
7 Il concetto di “Avvicinamento” che scopriamo nel saggio del 1963 Tipo Nome Forma viene ripreso nello scritto del 1970 Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza: “L’avvicinamento è tutto, e questo avvicinamento, non ha uno scopo tangibile, uno scopo cui si possa dare un nome, il senso risiede nel cammino”. Ernst Jünger, Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza, Guanda, Parma 2006, p. 53.
8 “(…) nel regno della forma la regola non distingue tra causa ed effetto, bensì tra sigillo ed impronta, ed è una regola di tutt’altra natura”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 31.
9 “Il predicare della natura (…) muove dall’oggetto (il giglio indicato), attraverso il tipo (il giglio nominato), alla forma e infine all’indistinto”. Le risposte divengono sempre più ampie e, nel contempo, si riducono le distinzioni. Questa riduzione è il segno dell’avvicinamento all’Indistinto”. Ernst Jünger, Tipo, Nome, Forma, trad. it., Herrenhaus, 2001, p.93.
10 La perdita dell’aura nell’epoca della riproducibilità tecnica è un elemento che Benjamin giudica, al contrario di Adorno e di Horkheimer, funzionale alla possibilità di una rivoluzione sociale. Paradossalmente Jünger, che da Benjamin è stato aspramente criticato in relazione al suo scritto Die Totale Mobilmachung, nella dura recensione Teorie del fascismo tedesco, ritiene anch’egli fatale il sacrificio dell’autenticità dell’arte a favore del suo “uso” rivoluzionario. Naturalmente le prospettive sono opposte in quanto, alla stregua di Lukács (cfr. György Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, p. 538.), gli “incatesimi runici” diJünger sarebbero, secondo Benjamin, tesi al rafforzamento di una “classe di dominatori” che “non deve rendere conto a nessuno e meno che mai a se stessa, che, issata su un altissimo trono, ha i tratti sfingei del produttore, che promette di diventare prestissimo l’unico consumatore delle sue merci”. Walter Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in id., Benjamin,Critiche e recensioni, Tra avanguardie e letteratura di consumo, trad. it., Einaudi, Torino 1979, p. 159. Dunque, la rivoluzione di Jünger e dei suoi sodali nazional-rivoluzionari, sarebbe tesa “ideologicamente” a rafforzare lo status quo, cioè lo stato liberalcapitalista e i privilegi dei “padroni”. Secondo i miei studi, Ernst Jünger non critica falsamente (“ideologicamente”) la classe borghese per amplificarne paradossalmente il potere. Egli non ha il fine di favorire lostatus quo. Nel corso dell’articolo avrò modo di ribadire come le posizioni di Jünger sono equidistanti sia dal materialismo collettivista sia dall’utilitarismo borghese.
11 Secondo Daniele Lazzari: “Siamo stati persuasi da quasi tre secoli di illuminismo che il pensiero moderno avrebbe piegato le forze elementari ormai scientificamente conosciute, analizzate ed “ingabbiate” dal razionalismo dell’umana specie, ma in barba a queste riflessioni, all’osservatore più attento non può sfuggire il persistere, se non l’accentuarsi, di queste forze elementari. Tra queste la Natura, mai dimentica di sé e della sua eterna potenza non perde occasione di ricordarci la sua grandezza, la sua inarrestabile forza distruttrice con le grandi alluvioni, trombe d’aria e vulcaniche eruzioni”. Daniele Lazzari, Il Signore della Tecnica, in A.A. V.V., Ernst Jünger, L’Europa, cioè il coraggio, Società Editrice Barbarossa, Milano 2003, p. 162.
12 Heidegger ricorda che “Τά μαθήματα significa per i Greci ciò che, nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo”. 

www.ariannaeditrice.it - 11/01/2011