© 2005-2016 Piero Sampiero TUTTI I DIRITTI RISERVATI.

'Io stesso sono un anarchico ma di un tipo diverso'

Mahatma Gandhi

domenica 30 dicembre 2007

L' amore al tempo del rock



Come sarà stato l'amore nelle generazioni precedenti?

Qual era la concezione e la pratica di questo indistruttibile strumento di crescita ed emancipazione?

A sentire chi ha vissuto al tempo del rock, quello primigenio di Elvis Presley, Little Richard, Bill Haley, all'epoca di James Dean e del primo Marlon Brando, quando si ruppero gli schemi della società tradizionale con i figli che cominciavano la contestazione nei confronti dei padri (sia quelli appartenenti alla mitica e dorata società americana del way of life per un nuovo Eden, nato dalle ceneri della seconda guerra mondiale, e sia quelli che in Europa si rimboccavano le maniche, cercando d' imitare i modelli, un po' ingenui, del benessere d'oltreoceano, con la consapevolezza di dover conquistare con il lavoro ed i sacrifici senza soste ciò che sarebbe divenuto il miracolo economico della ricostruzione del dopoguerra,) l'amore si librava come una farfalla tra petali in fiore.

Il pudore abbassava i toni e si attestava sul minimo comun denominatore della libertà dei costumi moderatamente intesa.

Senza grandi clamori, avvolta in un'elegante discrezione, ma scevra da pregiudizi e convenzioni puritane.

I sentimenti avevano l'opportunità di manifestarsi più apertamente che in passato, con poche e semplici regole lontane dal perbenismo di maniera ed il sesso si conquistava con entusiasmo e gradualità, apprezzandolo come un frutto, al tempo stesso, proibito e prelibato.

Si svelava a poco a poco, assimilando le idee, non conformiste e liberatorie, legate alla scoperta dell'istinto vitale di uomini e donne che finalmente potevano ascoltare, senza tabù la voce della propria intima natura, così ben descritte da David Herbert Lawrence nell 'Amante di lady Chatterley.

L'amore al tempo del rock non aveva nulla di cinico e prevedibile. Si costruiva nella maniera più naturale ed il ritmo di quella musica, allegra, gaudente, ribelle e scatenata, era il segnale di una svolta epocale, unica nella storia del costume del novecento.

Nessuno poteva immaginare che avrebbe, poi, aperto le porte al sessantotto e alla demolizione degli ultimi rifugi dell'io, per fare spazio alla massificazione e alla banalizzazione, per instaurare l'omologazione e la globalizzazione del più positivo e creativo, rivoluzionario ed individualista dei sentimenti umani.

Forse era, quella del rock, la misura più equilibrata che la rivolta giovanile di quella generazione potesse acquisire e lasciare in eredità per un mondo più libero.

Ma noi, forse, non abbiamo saputo amministrarla come meritava.
Che bello il vecchio "Rock around the clock".

venerdì 28 dicembre 2007

Bucarest e l'Europa


L'atmosfera di questo Natale era incantevole con l'albero più grande d'Europa al centro della piazza più celebre della capitale della Romania.


Molto deve fare, questo paese per crescere e scrollarsi il peso di un passato drammatico.


Ma le incertezze del cammino, faticoso e controverso, come capita spesso nella storia, alla fine di un'epoca e all'inizio di un'altra, non devono ricadere sulla popolazione, la quale cerca di avviare un'economia moderna, senza dimenticare le tradizioni contadine, che hanno costituito, insieme con la Chiesa, il collante dell'identità di un paese naturalmente europeo e latino, per il filo di continuità che tuttora sottilmente lo lega a Roma antica.


Ci auguriamo che le radici non vengano recise e che l'atmosfera che si comincia a respirare duri nel tempo e nel tempo si rafforzi.


Vorremmo una Romania europea e latina, un modello che nessuno degli stati, appartenenti alla vecchia comunità, ha saputo creare mentre dovrebbe costituire l'immagine più profonda e vera del continente.


Andiamo a leggere o rileggere Mircea Eliade, Eugene Jonesco ed anche Emile Cioran, i quali, con
altri innumerevoli esempi d'intellettuali, scrittori, poeti ed artisti, sono i simboli indelebili della Romania più grande.

Ricordiamo Vintila Horia, fine scrittore e profeta della decadenza europea, che visse, come tanti, esule a Parigi, per testimoniare la propria fede nel riscatto di un popolo e dell'Europa intera.

lunedì 24 dicembre 2007

Natale di sangue


Uno psicopatico ha massacrato un'ancor giovane donna a Castelfranco Veneto.

Un delitto efferato.

L'uomo, ritenuto malato di mente, lavorava come falegname ed era entrato in contatto con la vittima tramite una chat.

Che cosa possa aver indotto la figlia di un notaio benestante a frequentare in web un tale individuo non lo possiamo sapere con certezza.

Ma non è il solo interrogativo che rimane in testa dopo aver ascoltato le notizie del telegiornale.

Uno fra tutti rimane inquietante.

I carabinieri affermano di aver localizzato il luogo del sequestro ed il locale dov' era tenuta la prigioniera, ma non sono intervenuti, per timore di peggiorare la situazione, limitandosi, quindi, a seguire il rapitore per giorni e giorni.

Sono passate circa un paio di settimane dall'annuncio della scomparsa, senza nessun indizio particolarmente utile per non ritenerla in pericolo di vita.

Come si fa a ritenere che si potesse trattare di una fuga sentimentale tra due adulti conosciutisi chattando?

Tutto può essere, ma gl'investigatori, una volta stabilita l'identità dell'uomo ed identificata la sua abitazione, non avevano altre possibilità per tutelare l'integrità della sequestrata?

Pare impossibile che con tutti gli strumenti che la tecnologia mette oggi a disposizione degli apparati dello stato, la situazione sia sfuggita di mano in modo così raccapricciante: la morte, infatti, risale a pochi giorni dopo il rapimento.

Paradossale e tragico che, alla vigilia del Natale, un falegname, come Giuseppe di Nazareth, possa aver imbrattato di sangue il ricordo della nascita del Salvatore.

Assurdo constatare come, tramite la telematica, si possa irretire ed uccidere, ma non ci si possa difendere dal male, prevenirlo e sconfiggerlo.

Eppure essa non ha, in se stessa, niente di perverso e malvagio.
O è vero il contrario?

domenica 23 dicembre 2007

La sconfitta dei Sioux


I miei amici Hunkapi ( http://blog.libero.it/HUNKAPI/) mi hanno segnalato la grave situazione del popolo Sioux, che - a furia di stenti e di emarginazione della propria cultura- ha recentemente dichiarato di voler rinunciare alla cittadinanza U.S.A. per riunirsi in uno Stato indipendente invocando la costituzione americana.

E’ grave dover constatare che queste nobili comunità di pellerossa siano ormai allo stremo delle forze e rischino l’estinzione.

Anche questa è una forma di genocidio, meno appariscente e violenta, ma sempre condannabile come quella dei tibetani e di altre minoranze etniche, che per diritto naturale avrebbero dovuto conservare i propri spazi, la propria autonomia, la propria identità.

In una nazione reputata civile baluardo delle libertà, nella quale anche il Dalai Lama ha trovato accoglienza amichevole e solidale, a dispetto delle relazioni diplomatiche con la Cina, è possibile che non si trovi un accordo per proteggere i legami con i nativi, parte integrante della storia di quel Paese?

La globalizzazione perpetra delitti esecrabili nei confronti di etnie indifese ed incapaci di sottomissione alla legge della mercificazione postindustriale, senza che si possa fare niente?

Io faccio quel che posso volentieri, dando una mano agli Amici degl’indiani d’america. Fatelo anche voi. Inviate una testimonianza di solidarietà.

Nel segno di una tradizione di coraggio e lealtà, di attaccamento alla terra e alla natura e all’umanità, caratteristica indelebile dei Lakota, ma rintracciabile in vaste aree europee ed asiatiche in in un continuum di princìpi e di valori anteriori all'epoca moderna, dei quali, peraltro, l'uomo contemporaneo non può fare a meno, senza votarsi all'autodistruzione.

Questa tribù sparsa in varie regioni del Nord America è una delle più valorose. Si pensi solo al fatto che, vincendo in battaglia, si limitava a toccare con la lancia l’avversario, lasciandolo in vita.

Ora, per un curioso destino, li lasciano morire, sconfitti dalla barbarie dell’economicismo e dell’indifferenza.

Salviamo il popolo dei bisonti, la sua civiltà e con essa la poesia dell’avventura e della libertà
.

martedì 4 dicembre 2007

Un guru moderno ed improbabile


Siamo troppo scettici per credere che la psicanalisi e la sociologia possano sostituire la filosofia e la religione antiche.

Ora, se c'è una credulità popolare, alquanto semplicistica e pericolosa per la salute mentale e fisica dei contemporanei, da contrastare con intelligenza e buon senso, ricorrendo magari al proprio innato spirito di sopravvivenza, è quella indotta non solo da imbonitori, maghi e fattucchiere, facilmente ricoscibile nel tragico marasma quotidiano e nella confusione delle lingue mass-mediatiche, ma, soprattutto, quella più perniciosa e sottile prodotta dai moderni guru, tanto supponenti quanto improbabili.

Ci riferiamo agli autorefenziali giornalisti - scrittori, pensatori, psicoterapeuti, epistemologi, scientisti e tuttologi progressivi, nati e cresciuti all'ombra di Freud e Darwin, troppo esperti nell'arte di affastellare concetti ed idee, raccattati alla bell' e meglio tra i cascami dell'illuminismo e del positivismo, censori inflessibili di quanto non sia riconducibile alla modernità e ai dogmi evoluzionisti, pavloviani coatti e totalizzanti.

Tra questi nuovi e un po' grotteschi sacerdoti del vacuo e dell'effimero, imbrigliati negli schemi fragili e traballanti del freudismo, elaborati ad uso e consumo del pensiero debole e della società di massa, si distingue un maitre à penser un po' buffo e un po' preoccupante, che dottoreggia dalle colonne delle riviste femminili, alla radio e alla televisione, come punto di riferimento degl'incolti di ogni razza, desiderosi di abbeverarsi alla fonte della verità rivelata e che risponde al nome di Umberto Galimberti, docente di non so più quale disciplina avanzata ed inconcludente (parlare di filosofia tra i contemporanei, è francamente esagerato!) presso qualche facoltà inutile della nostra inutile Università.

Costui imperversa ormai senza controllo dagli schermi della TV generalista, per impartire i propri saggi ed indecifrabili insegnamenti a chiunque sia disposto a contrabbandare per felice intuizione una banalità ben confezionata.

L'ultima trovata è saltata fuori a proposito degl'infanticidi, sempre più frequenti tra le madri del nostro tempo, sembra più di quanto non fosse in passato.

Queste donne sventurate, ricoverate spesso, a scontare le proprie nefandezze, presso i vecchi manicomi criminali o case di cura rieducatrici devono essere riconsiderate nella loro deviata personalità e definite ormai del tutto normali.
Non solo perché, come pure si sta affermando nell'analisi del fenomeno, gli assassinii di bimbi stanno diventando tanto frequenti, da far temere che siano un problema, non tanto individuale, quanto sociale. Ma, specialmente sulla scorta di un criterio neoscientista esposto con pacatezza e convinzione dal neofilosofo Galimberti: la doppia soggettività degli esseri umani, in particolare di natura femminile.

Le donne infatti hanno, da una parte, l'istinto materno e, dall'altra, un istinto funzionale alla specie d'appartenenza, lati opposti che compongono, in egual misura, la loro personalità.

In ragione di tale ambivalenza, non c'è da stupirsi se, accanto all'amore per i figli, si colloca la volontà omicida di disfarsi della prole.
Non c'è né da stupirsi, né da pensare più ad un'anomalia della psiche. Tanto da dover evitare di parlare di raptus a proposito delle uccisioni dei neonati o no.
Il raptus non esiste! Sentenzia l'Umberto.

E allora? Qual è la spiegazione dei delitti commessi dalle madri?

Non è la depressione, ma la condizione sociale e familiare, in cui la donna si trova a vivere e alla quale, ovviamente, non è estranea una componente di tipo maschilista, dovuta cioè alla trascuratezza, all'insensibilità, al menefreghismo dei mariti.

Una volta si pensava che una moglie trascurata potesse incarnarsi in madame Bovary
e avesse il diritto, nell'evolversi dei costumi, di farsi qualche amante, ma oggi può fare di più, mettendo a nudo il secondo aspetto di se stessa: strangolando, affogando, soffocando o colpendo alla testa il frutto del proprio seno, senza colpa o quasi...

Permetteteci di non credere ad una parola del Professore e di ritenere aria fritta quello che la sua facondia gli fa dire, mietendo consensi tra il pubblico meno avvertito e più abbiente (quello per interci afflitto da complessi d'inferiorità di fronte al nuovo che avanza e quindi più disposto a bersi le scoperte del libero ed indisciplinato pensiero).

Preferiamo riferirci al dramma antico di Medea, e alla medicina ufficiale, con tutte le riserve del caso, piuttosto che ai complessi di Edipo e alle elucubrazioni pseudo-biologiche degli intellettuali
da rotocalco.
Certamente le nevrosi aumentano con il progredire della civilizzazione e l'aggressività è un dato acquisto dall'etologia, ma ciò non significa che qualsiasi interpretazione riduttiva e quantistica della natura, possa avere spazio, per creare infondati giustificazionismi ed alibi fasulli e criminogeni sulla scorta di un sessantottismo elevato ad ordine morale.

Abbiamo troppo rispetto per la figura femminile e per l'immagine materna, per ridurre tutto ad una categoria sociologica, che tende ad attribuire ad un ente astratto, come la società (immaginata e non concreta), gli errori ed i delitti di mamme, in molti casi, moralmente non educate e culturalmente impreparate, al proprio compito complesso e delicato, il più delle volte affrontato superficialmente, secondo i dettami di modelli legati al finto benessere e alla facile edulcorata esistenza dei reality.

Per non essere dei cattivi maestri, i nostri moderni ed improbabili guru farebbero bene, pertanto, a studiare di più le cause di certi tristi avvenimenti e ad approfondire meglio la realtà, al di fuori di schematismi ideologici e di sintesi affrettate tra discipline diverse ed inconciliabili.

Una malattia è una malattia, un delitto è un delitto.




venerdì 30 novembre 2007

Verso una teologia laicista?


Nonostante la scrittura lineare e brillante, non è una lettura facile quella dell'ultimo libro del Prof. Vito Mancuso, docente di Teologia moderna, presso la facoltà di Filosofia dell'Università S. Raffaele di Milano, significativamente intitolato "L'anima e il suo destino".

Non lo è soprattutto per chi, abituato a letture erratiche, più che a studi sistematici, com'è per la maggior parte dei laici, decida di approfondire tematiche complesse sull'aldilà, esposte da un cattolico praticante con vocazione da eresiarca. L'autore, per evitare che l'obbedienza al principio d'autorità conduca allo scetticismo o, peggio, all'ateismo, non ha timore di nascondere la volontà di contrastare regole secolari e consacrate, sostenuto dalla convinzione incontrovertibile di ricercare la verità con la più chiara onestà d'intenti, al servizio di una visione laica della religione, fondata sulle ragioni di una fede in stretta relazione con la speculazione filosofica e scientifica.

Una preoccupazione teologica non distante, peraltro, dalle ambizioni della Pontificia Opera delle Scienze, che ha recentemente ribadito con la voce del suo cancelliere, Monsignor Marcelo Sanchez Sorondo, proprio la necessità di una comprensione organica dei vari livelli di conoscenza umana.

Si tratta per tutti, studiosi togati o no, di un compito improbo ed affascinante, che il Prof. Mancuso ha condotto con lucida consapevolezza, visitando a fondo fisica, biologia, astronomia, pensiero greco ed orientale, da Simon Weil al Dalai Lama, analizzando testi antichi e risultati recenti delle varie branche del sapere, senza titubanze, né reverenze per dogmi basilari, convalidate tesi dottrinarie, monolitici pilastri del cattolicesimo come S.Agostino e S.Paolo.

L'impressione che si ricava dalla lettura del corposo e suggestivo saggio è, da un lato, una serie di teoremi interessanti e confortevoli per lo spirito, la sensazione di poter pervenire ad una concentrazione della natura verso l'alto, nella direzione dell'ordine e del logos, con il superamento degli aspetti apocalittici ed orrifici della tradizione catechistica, verso l'lluminazione e la serenità, fino alla compenetrazione con Dio.

D'altro canto, sono evidenti le incancellabili influenze di Pierre Teilhard de Chardin ed il suo rischioso immanentismo, che lasciano irrisolte, per l'osservatore comune, almeno due questioni fondamentali: il problema del male nel mondo e il rapporto tra Dio e l'uomo.

Nonostante i postulati evoluzionisti ed una concezione ottimistica dell'esistenza, che richiama l'apparentemente solido principio hegeliano della "razionalità di tutto il reale", è difficile credere che la radice malefica presente nell'universo, con catastrofi, malattie, guerre, odi, fanatismi e la finitudine e debolezza dell'esistenza possano vincersi con l'amore e l'ascesa alla perfezione.

Notevole, nello scorrere delle pagine, è l'ansia pacificatrice e l'esigenza insopprimibile d'individuare la giustizia ed il bene nell’essere, con affascinanti richiami all'imperativo categorico di Kant.

Ma, l'anelito all'armonia e alla sintesi tra l'essere e il divino, seguono un via arditamente anti-tradizionale: lo scrittore procede, infatti, con imprudenza e temerarietà, a colpi di machete, tagliando di netto la figura paradigmatica di Gesù, il suo intervento carismatico nella storia dell'umanità e l’antico concetto del Dio personale, riducendolo a pura idea.

Pur essendo positivamente colpiti sia dall'esposizione dei punti di contatto delle varie religioni (sulla traccia ideale delle pregevoli opere dello storico Mircea Eliade e del pensatore sincretista Elémire Zolla), sia dai riferimenti a scienziati illustri come Capra, Margulis, Kauffman, Rizzolatti, che contrastano efficacemente la sicumera delle tesi atee dei vari Odifreddi, Hack, Montalcini etc., si rimane dubbiosi e perplessi di fronte alle conclusioni del saggio.

Definire, una volta per tutte, il problema dell'aldilà, attorno al quale l'uomo continua ad affannarsi da tempo immemorabile, rimane uno scopo da raggiungere, per quanti non abbiano il dono della fede.

Chi non è aduso al linguaggio complesso degli studi teologici si sente attratto dalla logica dell'argomentare, dall'efficacia della comunicazione e dalla sofferta passione del libro, ma l'annientamento di alcuni capisaldi del catechismo e dell'elaborazione dottrinale della Chiesa appare, paradossalmente, troppo semplicistica.

Lo sforzo compiuto con la stesura di quest’opera non è comunque senza conseguenze di rilievo per gl'intelletti agnostici. Il suo pregio maggiore è quello di stimolare la curiosità e l'apertura alla conoscenza. Non è poco, in tempi di neopositivismo e sistematica tendenza all'abbattimento del Sacro nelle sue varie forme.

-----------------------------

Vito Mancuso, L'anima e il suo destino, Raffaello Cortina editore, 2007, euro 19,80

All'Insegna dell'understatement

Understatement

è un termine della lingua inglese e indica una figura retorica che consiste nel ricorso a parole per difetto, oltre i limiti della verosimiglianza e fino alla deformazione del reale.

In lingua italiana understatement può essere tradotto con il significato di sottostima. Il termine è stato introdotto nel panorama linguistico dagli studi di linguistica cognitiva. È usato con ironia o per ridurre un effetto reale; può essere considerato l'esatto contrario della figura retorica nota come iperbole (Wikpedia)

Dizionario De Mauro:Ingl. atteggiamento volutamente antiretorico e alieno da qualsiasi ostentazione.24


Un saluto non convenzionale e cordiale per quanti vorranno
leggere e commentare in piena libertà e spirito critico,
nel rispetto del buon gusto e del fair play, questo blog.