Nelle pagine che seguono cercherò, da un lato, di evidenziare la portata propriamente metafisica del saggio esaminando la metafisica delle forme che ne costituisce l’impianto; dall’altra, avrò modo di rilevare come Ernst Jünger ne L’operaio non abbia l’intenzione di criticare la classe borghese per rinsaldarne, attraverso un artificio ideale, il potere; al contrario, secondo i miei studi, egli mette sotto accusa il borghese e il suo potere volendo, almeno teoricamente, contribuire alla costruzione di un modello metapolitico che, già a partire dai presupposti, si distingua nettamente sia dal liberalcapitalismo che dal collettivismo.
1. Forma e Tipo
Sfogliando L’operaio si ha la sensazione che temi di varia natura siano talmente e finemente interconnessi che appaia assai arduo procedere ad una de-composizione funzionale alla comprensione dei presupposti. Ad una lettura più attenta si “vede” invece perfettamente ciò che, nell’intento dell’acuto “sismografo”, si cela sotto la multiforme matassa. E’ utile a questo punto procedere alla illustrazione di quelli che mi sono sembrati i fondamenti metafisici del saggio del ’32.
Se la forma nelle sue vestigia mortali è una declinazione dell’eternità, il tipo deve, a mio avviso, essere considerato come la guisa temporale della forma. Esso infatti, in un certo senso, attualizza il Destino della Forma. Tale Destino, come suggerito dal titolo de L’operaio, è il Dominio della Forma. Un Dominio che, lo si diceva, non è parziale, che cioè non si espande in un solo piano della realtà, ma a livello del pensare, del sentire e del volere oltre che nello spazio tramite la tecnica e la distruzione che essa comporta. Nello scritto del 1963 Typus, Name, Gestalt si legge che “Tipo” è più di “individuo” nella stessa misura in cui è meno di “forma” (9).
La forma è più vicina all’Indistinto; il tipo, irradiazione della Forma, valicata l’individualità, spalanca le porte all’impersonalità. Questo discorso appare fin qui assai astratto. Per comprendere come effettivamente l’uomo, facendosi Tipo, possa rispecchiare totalmente la forma, è necessario riflettere sul linguaggio della manifestazione della forma. L’uomo infatti si fa tipo (forma nel tempo) praticando, in certo qual modo essendo, il linguaggio della forma. Divenendo tipo, e cioè qualcosa che supera gli esclusivi interessi della propria isolata individualità, si pro-pone al servizio dell’espansione totale della forma. Ora, a parere di Jünger, il linguaggio che la forma, tramite l’uomo, parla nell’epoca della “riproducibilità tecnica” (10) è naturalmente proprio quello della tecnica. Nel periodo de L’operaio la tecnica è un ingranaggio di questo sistema metafisico. Solamente tramite la tecnica infatti la forma può dominare in tutto il mondo. La tecnica è, in altri termini, il modo più efficace tramite cui la Forma può dominare totalmente.
2. L’elementare
3. La tecnica
La tecnica è “la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo” (15). L’Operaio è così quella Forma che mobilita il mondo tramite la tecnica. Heidegger commenta che allora la tecnica coincide con la mobilitazione -totale- del mondo attuata dalla forma dell’Operaio (16). Alain de Benoist, rifacendosi al saggio del 1930 intitolato Die Totale Mobilmachung, fa presente come ”mobilitare”, nel gergo di Jünger, non significhi solo mettere in movimento, ma vorrebbe indicare anche “essere pronto, rendere pronto”, Alain De Benoist aggiunge, “alla guerra” (17). Mobilitare può significare essenzialmente rendere qualcosa disponibile per qualcos’altro: la mobilitazione del mondo appresta il mondo alla conquista totale della Forma del Lavoro. La mobiltazione va da un lato di pari passo con la distruzione e si realizza nello spazio con la tecnica bellica (18); da un altro lato, già nella sua opera di demolizione, prepara il terreno per la parusia di una nuova Figura e innesca il meccanismo necessario affinché il nuovo Dominio della Forma si realizzi. Come si diceva, il tipo umano è altro dall’individuo. Ora, l’uomo si fa tipo tramite la tecnica, la quale incide sull’essenza dell’uomo grazie alla messa in moto di radicali processi spersonalizzanti che aprono l’individuo alla uni-formità e dunque alla sovra-individualità (19).
L’uomo che inizialmente crede di perseguire tramite la tecnica (strumento da lui inteso in senso neutrale) la felicità (la tecnica si propaga facilmente e velocemente e ingenera l’illusione che tramite essa si possa superare il dolore), poi diventa parte del dispositivo che accende.
Fin qui pare di leggere una critica alla tecnica e alla ragione che potremmo trovare in molti altri autori in quel tempo (25). Ma Jünger sembra essere originale proprio in quanto, dopo aver individuato le trasformazioni che la tecnica produce sull’uomo, non cede alla tentazione di condannare i mutamenti epocali di cui si è detto. Che l’uomo pensi di poter restare indenne da questi processi totali è infatti, a suo avviso, un’illusione. Egli, che si voglia o no, ne è mutato profondamente. Questa tras-figurazione distrugge negativamente l’individuo borghese; l’Operaio invece, consapevole della necessità dei processi in atto, sacrifica eroicamente i propri desideri contingenti e, nel Lavoro, considerato alla stregua di una missione rivoluzionaria, perviene alla coscienza di partecipare al Destino della Forma assurgendo a vessillo, “geroglifico” del suo totale Dominio. L’essenza della tecnica dunque, come dirà Heidegger, non sarebbe nulla di tecnico ma di nichilistico (26). Essa demolisce ogni vincolo e ogni consuetudinaria misura in quanto costringe ogni ente al suo utilizzo. Le cose perderebbero così il valore armonico, tradizionale, sacrale, cultuale che avevano e diventerebbero oggetti da dominare e da utilizzare facilmente e velocemente. Il fatto che il mobilitare appaia come un mezzo finalizzato al medesimo e cieco mobilitare, è appunto una apparenza che s-vela l’alto livello a cui la tecnica approda nella sua opera di conquista totale. In verità, il mobilitare finalizzato al mobilitare è, nel pensiero che si analizza, esattamente l’”astuto” modo che la Forma attualmente adotta per raggiungere il proprio Dominio. Il protagonista del mobilitare, il suo fine, non è infatti, contrariamente alle apparenze, in ultima istanza, il mobilitare, ma la vittoria totale della nuova Forma. Per questo Jünger distingue chiaramente tra fase dinamico-esplosiva (“paesaggio da officina”) e Dominio della Forma dell’Operaio. La prima è necessaria al secondo, ma il secondo conclude, nel suo compiersi, la fase “anarchica” in cui il mobilitare si esprime in modo tanto potente da ingenerare la credenza che il suo fine sia solo e soltanto la propria cieca, distruttiva e totale manifestazione (27). In questo processo totale, antikantianamente (28), l’uomo scoprirebbe la sua dignità, o, facendo nostro un gergo appropriato allo spirito del tempo in cui Jünger scrive, il suo “onore”, proprio nel trasformarsi in mezzo della manifestazione della forma. La tecnica è così esaltata precisamente perché tras-forma l’uomo da fine isolato a mezzo organico. L’Operaio risulta, nello spirito e nel corpo, glorificato, per così dire, alchemicamente risorto nella Forma.
4. Metapolitica
Questa analisi ci permette di planare dall’orizzonte metafisico a quello metapolitico. Jünger non condivide il presupposto che starebbe alla base del modello economico proposto dalla società liberal-capitalista, secondo cui la felicità e il benessere di una nazione si ottiene tramite la soddisfazione economica degli individui (atomi) che compongono la stessa società (29).
Al tempo de L’Operaio la distruzione bellica, grazie alla tecnologia, assunse un livello mai raggiunto fino a quel momento, le lotte sociali si fecero, a causa della misera condizione della classe operaia, ma anche in virtù della diffusione della ideologia marxista, dell’avanzata dei partiti socialisti e dei sindacati, proporzionali all’industrializzazione e alla mobilitazione dei materiali (umani e non) in vista del dominio delle nazioni più sviluppate. Nel dopoguerra, specialmente a causa dell’inflazione e della fortissima svalutazione della moneta, buona parte della classe media perse ogni sua sicurezza e si produssero licenziamenti a catena nelle fabbriche; vari movimenti di destra e di sinistra e altri che si collocavano esplicitamente al di là di questi due cartelli ideali, ottennero così il favore della popolazione stremata dalla crisi economica. Se a ciò si aggiunge la polemica nazionalista contro i firmatari della pesante e probabilmente iniqua pace di Versailles, si capisce come il clima politico e sociale fosse confacente all’avanzata di partiti “radicali” che vedevano nella classe liberale al potere la responsabile dello sfacelo economico e politico della Germania. In un orizzonte in cui il “nuovo nazionalismo”, a cui Jünger aderisce già a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, otteneva sempre più consensi, la metafisica delle Forme avrebbe potuto dunque acquistare un significato morale-politico: il superamento del concetto di individuo, negli intenti di Jünger, avrebbe potuto condurre alla creazione di un “Uomo nuovo” che fosse pronto a donare la propria vita e ad immolare i propri desideri per la potenza dello stato organico, per il risanamento totale “patria umiliata”. Nel pantano ideologico della Repubblica di Weimar questa metafisica politica poteva dunque servire, agli occhi del pensatore, a costruire un’etica che ponesse l’uomo in grado di salvarsi, anche a costo di profondi sacrifici personali, dalla grave crisi in cui versava buona parte delle nazioni europee in quel tempo. Il modernismo reazionario, di cui Jünger è “l’idealtipo” (31), ha un preciso fine politico che è chiaro al pensatore tedesco ben prima della stesura de L’operaio: “Chi potrebbe contestare che laZivilisation è più intimamente legata al progresso della Kultur, che nelle grandi città essa è in grado di parlare la sua lingua naturale e sa utilizzare mezzi e concetti nei cui confronti la Kulturè indifferente o addirittura ostile? La Kultur non si lascia sfruttare a scopi propagandistici, e un atteggiamento che cerchi di piegarla in questo senso non può che esserle estraneo (…)” (32). Jünger crede che il “cupo ardore” che spinse migliaia di giovani ad andare in guerra gridando “per la Germania” offerto ad una nazione “inesplicabile e invisibile”, per quanto fosse bastato a far “tremare i popoli fino all’ultima fibra”, non potesse essere sufficiente per sconfiggere nazioni come quella statunitense che si erano rese disponibili alla mobilitazione totale di tutte le loro energie. Da qui la domanda retorica e assai significativa: “E se soltanto (il cupo ardore di cui si è detto) avesse avuto fin dal primo momento una direzione, una coscienza, una forma?” (33). Il fine politico de L’operaio può allora essere così inteso: creare le premesse metafisiche, dunque “kulturali”, ideali affinché l’ entusiasmo eroico potesse essere veramente efficace, cioè vincente. Jünger si è reso conto non solo del potere ineguagliabile degli strumenti tecnici applicati alla guerra, ma anche della necessità di trasformare la mentalità della nazione nella direzione della mobilitazione totale. Tale mobilitazione implica la fusione della vita col lavoro. Egli cioè pensa che solo se tutto diventa lavoro, tutto viene mobilitato alla potenza e dunque alla vittoria della Germania. Perché ciò accada è necessario che ogni cosa venga piegata allo strumento tecnico. La società diventa “lavoro” se prima è diventata macchina, tecnica. La Kultur tradizionalmente intesa non basta a questo che è chiaramente inteso come uno scopo epocale. C’è bisogno di una Zivilisation che non contraddica la Kultur ma che ne garantisca la vittoria reale. L’operaio ha l’obbiettivo eminentemente politico di sintetizzare laKultur con la Zivilisation, in qualche modo di rendere culturale e politica la civilizzazione e di civilizzare, “modernizzare” la Kultur (34). Jünger contesta in maniera netta l’individualismo negli articoli scritti tra il 1918 e il 193335e, se si nota che L’operaio è del 1932, lo scritto può essere inteso in senso meramente apolitico molto difficilmente. Gli Operai, nel libro del ’32, sono uomini d’acciaio, incarnazione di un’etica oggettiva -realista-, che ha come fine il dominio della Forma del lavoro, e dunque il lavoro totale in ogni settore della produzione e dell’esistenza. L’individuo borghese che, in questa parabola di pensiero, ha come obbiettivo la comodità e la sicurezza, non sarebbe adatto a rappresentare senza rimpianti e con assoluto rigore un’etica che preveda la rinuncia alle proprie contingenti aspirazioni, alla propria esclusiva e “materiale” felicità. D’altra parte, non sarebbe adatto ad incarnare una simile etica neppure il “proletario” che si sente umiliato e combatte per migliorare le condizioni della sua classe e per ribaltare i rapporti di proprietà. Questi infatti lotta per gli interessi di una parte della nazione e ha un fine, che, dal punto di vista jüngeriano, resta sociale ed economico. L’Operaio invece, come si diceva, non bada al miglioramento della propria condizione economica, non ambisce ad impossessarsi dei mezzi di produzione né crede agli ideali di uguaglianza nei quali, seguendo la tradizione marxiana, il proletario dovrebbe credere. L’Operaio jüngeriano è al servizio della Forma e del suo Dominio; a questo servizio sacrifica ogni sua aspirazione, personale o di classe.
Note
1 Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt appare nell’ottobre del 1932 presso Hanseatische Verlagsanstalt (Hamburg). Nello stesso anno si hanno tre nuove edizioni del saggio. Dopo la guerra, Heidegger convince Jünger a ripubblicare il saggio che infatti compare nel sesto volume delle sue opere uscite presso Klett-Cotta a Stoccarda. L’opera è tradotta in italiano solo nel 1984 da Quirino Principe (L’operaio, trad. it., Longanesi, Milano 1984.) dopo che, agli inizi degli anni ’60, Julius Evola la fece conoscere nel riassunto analitico intitolato L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Armando, Roma 1961. Delio Cantimori preferì tradurre la parola Der Arbeiter con “milite del lavoro” per sottolineare il carattere guerriero della nuova figura (Cfr., Delio Cantimori, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, in Delio Cantimori, Tre saggi su Ernst Jünger, Moller van den Brück, Schmitt, Settimo Sigillo, Roma 1985, pp. 17-43.).
2 Qualora le forme, nel loro aspetto fenomenico, non fossero soggette all’annientamento, non si potrebbe agevolmente spiegare la differenza fra un ciclo caratterizzato dal dominio di alcune forme e un altro contraddistinto da forme diverse. Ci fossero sempre le stesse forme cosa muterebbe all’alba di un nuovo ciclo? La valorizzazione di questa dottrina tradizionale giustifica insieme ad altre importanti somiglianze un parallelo fra la metafisica di Jünger e quella a cui si richiamano Evola, Guénon ed in parte Eliade. In particolare, risulta interessante un confronto fra i segni che secondo questi autori caratterizzano il Kali Yuga (L’età Oscura, l’ultima età prima della fine di questo ciclo cosmico) e i segni che, ne L’operaio e in altre opere di Jünger, contraddistinguono l’“Interregno” in cui sorge ed agisce la Forma dell’Operaio. In questo senso, è assolutamente importante anche un paragone con Spengler per il quale si rimanda a: Domenico Conte, Jünger, Spengler e la storia, in A.A. V.V., in Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, a cura di Luisa Bonesio, Herrenhaus, 2002, pp. 153-198; Luciano Arcella, Ernst Jünger, Oltre la storia, in Due volte la cometa, Atti del convegno Roma 28 ottobre 1995, Settimo Sigillo, Roma 1998. Antonio Gnoli e Franco Volpi, I prossimi titani, Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pp. 103, 104. Si veda anche Julius Evola, Spengler e il Tramonto dell’Occidente, Fondazione Julius Evola, Roma 1981. Sulla interpretazione jüngeriana del pensiero di Spengler si legga soprattutto: Ernst Jünger, trad. it., Al muro del tempo, Adelphi, Milano 2000.
3 “Nella forma è racchiuso il tutto che comprende più che non la somma delle proprie parti”. Ernst Jünger, trad. it., L’Operaio, Dominio e Forma, Guanda, Parma 2004, p. 32. “Una parte è certamente così lontana dall’essere una forma così come una forma è lontana dall’essere una somma di parti”. Ibidem.
4 Jünger definisce la storia dell’evoluzione come “il commento dinamico” della forma. Cfr., Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 75. La forma dunque “non esclude l’evoluzione”, la “include come proiezione sul piano della realtà”. Ivi, p. 125. Ciò implica l’avversione non solo alla dottrina del progresso (“ogni progresso implica un regresso”), ma il rifiuto netto di ogni prospettiva storicistica: “La storia non produce forme, ma si modifica in virtù della forma”, ivi. p. 75. Evola commenta: “Le figure non sono storicamente condizionate; invece sono esse a condizionare la storia, la quale è la scena del loro manifestarsi, del loro succedersi, del loro incontrarsi e lottare (…). E’ l’apparire di una nuova figura a dare ad ogni civiltà la sua impronta. Le figure non divengono, non si evolvono, non sono i prodotti di processi empirici, di rapporti orizzontali di causa e di effetto”. Julius Evola, L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 32. Si potrebbe allora sostenere con Eliade che la “valorizzazione” dell’esistenza umana non è “quella che cercano di dare certe correnti filosofiche posthegeliane, soprattutto il marxismo, lo storicismo e l’esistenzialismo, in seguito alla scoperta dell’ “uomo storico”, dell’uomo che si fa da se stesso in seno alla storia”. Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Archetipi e ripetizioni, Borla, Roma 1999, p. 8. Questa impostazione è molto simile a quella jüngeriana, infatti l’Operaio comeGestalt non può essere considerato un prodotto delle dinamiche storico-economiche. E’ la Forma a fare la storia, non viceversa.
5 Usando il linguaggio heideggeriano si può sostenere che la forma non può essere piegata alla scienza intesa come “ricerca”: “La scienza diviene ricerca quando si ripone l’essere dell’ente” nell’ “oggettività”. Cfr., Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id.Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 83. La Forma non può essere oggettivizzata, non se ne può fornire una storia dettagliata né, tantomeno, se ne può calcolare in anticipo e con esattezza il corso futuro.
6 Plotino distingue l’essere che è costituito da forme sensibili e intelligibili dall’Uno che può essere considerato amorfo: “L’Uno non è “qualcosa”, ma è anteriore a qualsiasi cosa; e nemmeno non è essere, poiché l’essere possiede (…) una forma, la forma dell’essere. Ma l’Uno è privo di forma, privo anche della forma intelligibile”. Plotino, Enneade VI, in Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992, p. 1343. L’Uno “privo di forma” non può essere conosciuto “né per mezzo della scienza né per mezzo del pensiero”. Chi estaticamente ha “visto” o meglio è “stato” (è) l’Uno “non immagina una dualità, ma già diventato altro da quello che era e ormai non più se stesso, appartiene a Lui ed è uno con Lui”. L’Uno non può essere oggettivizzato. L’oggettivazione si fonda infatti sulla distanza e sulla differenza tra il soggetto che oggettiviza e l’ente oggettivizzato. Qualora ci fosse la distanza tra chi contempla l’Uno e l’Uno, quest’ultimo non si potrebbe cogliere come tale ma come “un altro”. Contemplare l’Uno significa farsi riempire dall’Uno, essere Uno. Stabilito ciò, si capisce come l’esperienza dell’Uno non possa essere adeguatamente raccontata. Manca infatti l’oggetto da ricordare. Ne L’operaiola tecnica è il modo attraverso cui l’uomo, superando la propria differenza, si avvicina a rappresentare la Forma che lo trascende.
7 Il concetto di “Avvicinamento” che scopriamo nel saggio del 1963 Tipo Nome Forma viene ripreso nello scritto del 1970 Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza: “L’avvicinamento è tutto, e questo avvicinamento, non ha uno scopo tangibile, uno scopo cui si possa dare un nome, il senso risiede nel cammino”. Ernst Jünger, Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza, Guanda, Parma 2006, p. 53.
8 “(…) nel regno della forma la regola non distingue tra causa ed effetto, bensì tra sigillo ed impronta, ed è una regola di tutt’altra natura”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 31.
9 “Il predicare della natura (…) muove dall’oggetto (il giglio indicato), attraverso il tipo (il giglio nominato), alla forma e infine all’indistinto”. Le risposte divengono sempre più ampie e, nel contempo, si riducono le distinzioni. Questa riduzione è il segno dell’avvicinamento all’Indistinto”. Ernst Jünger, Tipo, Nome, Forma, trad. it., Herrenhaus, 2001, p.93.
10 La perdita dell’aura nell’epoca della riproducibilità tecnica è un elemento che Benjamin giudica, al contrario di Adorno e di Horkheimer, funzionale alla possibilità di una rivoluzione sociale. Paradossalmente Jünger, che da Benjamin è stato aspramente criticato in relazione al suo scritto Die Totale Mobilmachung, nella dura recensione Teorie del fascismo tedesco, ritiene anch’egli fatale il sacrificio dell’autenticità dell’arte a favore del suo “uso” rivoluzionario. Naturalmente le prospettive sono opposte in quanto, alla stregua di Lukács (cfr. György Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, p. 538.), gli “incatesimi runici” diJünger sarebbero, secondo Benjamin, tesi al rafforzamento di una “classe di dominatori” che “non deve rendere conto a nessuno e meno che mai a se stessa, che, issata su un altissimo trono, ha i tratti sfingei del produttore, che promette di diventare prestissimo l’unico consumatore delle sue merci”. Walter Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in id., Benjamin,Critiche e recensioni, Tra avanguardie e letteratura di consumo, trad. it., Einaudi, Torino 1979, p. 159. Dunque, la rivoluzione di Jünger e dei suoi sodali nazional-rivoluzionari, sarebbe tesa “ideologicamente” a rafforzare lo status quo, cioè lo stato liberalcapitalista e i privilegi dei “padroni”. Secondo i miei studi, Ernst Jünger non critica falsamente (“ideologicamente”) la classe borghese per amplificarne paradossalmente il potere. Egli non ha il fine di favorire lostatus quo. Nel corso dell’articolo avrò modo di ribadire come le posizioni di Jünger sono equidistanti sia dal materialismo collettivista sia dall’utilitarismo borghese.
11 Secondo Daniele Lazzari: “Siamo stati persuasi da quasi tre secoli di illuminismo che il pensiero moderno avrebbe piegato le forze elementari ormai scientificamente conosciute, analizzate ed “ingabbiate” dal razionalismo dell’umana specie, ma in barba a queste riflessioni, all’osservatore più attento non può sfuggire il persistere, se non l’accentuarsi, di queste forze elementari. Tra queste la Natura, mai dimentica di sé e della sua eterna potenza non perde occasione di ricordarci la sua grandezza, la sua inarrestabile forza distruttrice con le grandi alluvioni, trombe d’aria e vulcaniche eruzioni”. Daniele Lazzari, Il Signore della Tecnica, in A.A. V.V., Ernst Jünger, L’Europa, cioè il coraggio, Società Editrice Barbarossa, Milano 2003, p. 162.
12 Heidegger ricorda che “Τά μαθήματα significa per i Greci ciò che, nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo”.
www.ariannaeditrice.it - 11/01/2011
1 commento:
Grazie per aver inserito il mio articolo su questo splendido sito.
Luca Caddeo
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